Il porta-lettera di Neruda. Tra la funzione del sogno e la funzione dell’analista di Maria Concetta Pinto

Il porta-lettera di Neruda. Tra la funzione del sogno e la funzione dell’analista di Maria Concetta Pinto

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Una volta in seduta un’analizzante ricordò il suo libro di storia delle medie inferiori, lo aveva proprio sotto gli occhi, copertina marroncina, le pitture sui papiri, disegni di uomini e donne con i vestiti trasparenti, come i disegni che fanno i bambini. Sulla stessa superficie dei vestiti si vedevano i segni dei seni e del sesso maschile: semplici segni su quei corpi, come i tratti dei geroglifici, così simili alle cose, così lontani da esse. Segni di una scrittura sconosciuta che catturava la sua curiosità; in un’epoca in cui il suo corpo era già permeato non solo del godimento materno ma anche dal suo desiderio, sconosciuto a lei stessa. Quei segni, così vicini alle cose, così lontani da esse, quali mondi potevano aprire alla sua curiosità?

Per gli antichi egizi geroglifici, per i cinesi ideogrammi, per gli occidentali lettere dell’alfabeto: segni che assumono la funzione di potersi unire costituendo dei significanti, quelle unità di senso che gli umani si rimandano l’un l’altro per cosa? Per domandare? Per dire, per dirsi, per darsi, perdersi? Uno spostamento di lettere ed è una nuova tessitura che rinnova la fioritura di senso lungo la catena significante che man mano si costruisce dando luogo al soggetto: il tòpos soggettivo è lo spazio della parola che svolgendo le formazioni dell’inconscio può articolarsi in una vera e propria carta toponomàstica.

 

Le formazioni dell’inconscio costituiscono la possibilità di un’articolazione ma non l’articolazione del discorso inconscio che invece viene fatta in analisi. A tale proposito risulta interessante quello che Freud dice nel sesto capitolo de L’interpretazione dei sogni, dove esplora il lavoro onirico. Il contenuto manifesto è una traduzione dei pensieri latenti del sogno che si possono conoscere solo imparandone i “segni e le regole sintattiche”. Freud assimila il contenuto del sogno a qualcosa che si dà come una scrittura geroglifica o un rebus: dove in pratica un’immagine viene intesa come un segno, come nella scrittura geroglifica, o una lettera come nel rebus, che andrà ad unirsi ad altri segni e lettere formando un significante o un’intera frase. Freud dice che: “si cadrebbe evidentemente in errore, se si volesse leggere questi segni secondo il loro valore di immagini, anziché secondo la loro relazione simbolica”[1]. Ma dice anche che il lavoro onirico di per sé non è un lavoro artistico, poetico: solo attraverso la traduzione che se ne fa in analisi può: “costituire la più bella e la più significativa frase poetica”[2].

Che cosa impedisce al sogno di essere poetico? L’assurdo? Se per assurdo intendiamo la finzione, è proprio nella sua costruzione che emerge la verità. Cosa allora? Per caso l’appagamento di desiderio che il sogno rappresenta? O il soddisfacimento sostitutivo nel sintomo? Come salvare il percorso del desiderio dai trabocchetti, dagli impedimenti del godimento?

Dante, al suo tempo – “Nel mezzo del cammin di nostra vita”: all’ora dell’incontro con la linea d’ombra? –, si è affidato a Virgilio, il poeta che aveva eletto a suo maestro per giungere, infine e senza saperlo, a toccare quel lembo di terra sempre amata e inter-detta che Beatrice gli aveva segnalato. Beatrice è per antonomasia il nome dell’ispiratrice, colei che pro-mette beatitudine –  piacere, felicità, gioia spirituale. Ma occorre l’intermediazione di Virgilio: un padre, maestro, guida, perché Dante possa attraversare l’inferno e il purgatorio e liberarsi dal peccato. Cos’è il peccato? Nulla ci impedisce di pensare che sia quel troppo ingombrante e vischioso del godimento sostitutivo.

Ecco come Dante incontra Beatrice e lascia Virgilio:

E lo spirito mio, che già cotanto 
tempo era stato ch'a la sua presenza[3]
non era di stupor, tremando, affranto,

sanza de li occhi aver più conoscenza[4]
per occulta virtù che da lei mosse, 
d'antico amor sentì la gran potenza.

Tosto che ne la vista mi percosse[5]
l'alta virtù che già m'avea trafitto 
prima ch'io fuor di püerizia fosse,

volsimi a la sinistra col respitto[6]
[…]

Ma Virgilio n'avea lasciati scemi[7]
di sé, Virgilio dolcissimo patre, 
Virgilio a cui per mia salute die'mi;[8]

Il riconoscimento della potenza dell’antico amore, non più legato alla persona fisica ma a qualcosa di occulto che pure è stato trasmesso a suo tempo, prima ch'io fuor di püerizia fosse: si può dire che la virtù sia diventata un tratto? Qualcosa dell’immagine che alla sua scomparsa resta come un segno mentre trafigge. Troviamo nel significante trafigge un’eco della castrazione che connota l’entrata nel linguaggio. In fondo non è la madre il primo Altro a trasmettere la parola al bambino anche se la parola, seguendo la tradizione cristiana-occidentale, sembra sia del padre? Ma cosa significa che la parola è del padre?

Nel paragrafo sull’ “Identificazione”, in Psicologia delle masse e analisi dell’Io, Freud parla dell’identificazione come della: “prima manifestazione di un legame emotivo con un persona”[9] e, ancora, due pagine dopo: “la forma più originaria di legame emotivo con un oggetto”. Curiosamente Freud non si sbilancia a dire “amore” anche se parlando del cannibalismo, nella stessa sede, dice che il cannibale ama i nemici che mangia e può mangiare solo quelli che può amare. Tuttavia qualcosa resiste a ché egli chiami “amore” l’identificazione. Forse perché per Freud questo legame nel momento della sua insorgenza non è erotizzato? Freud fa l’esempio del bambino che si identifica al padre prendendolo a modello, come proprio ideale. L’investimento oggettuale con il quale il bambino investe la madre è differente dall’identificazione: mentre si vorrebbe avere la madre, si vorrebbe essere come il padre. In seguito, l’identificazione, per via regressiva, potrà sostituire un legame oggettuale amoroso attraverso l’introiezione dell’oggetto nel momento in cui esso è stato perduto: il ché si scriverà come traccia sul suo corpo, ma non è ancora detto che questa traccia diventi il tratto di un significante.

Lacan ci presenta l’identificazione, con una frase che ritengo poetica, come: “la trasformazione[10] prodotta nel soggetto quando assume un’immagine”.[11] È ciò che permette quindi la costituzione dell’io ideale, forma primordiale dell’io che unisce la frammentarietà del corpo in un’immagine unitaria. Ma questa immagine unitaria è destinata a disgregarsi alla prima occasione nella quale l’individuo si autorizza e quindi si presenta al mondo, lasciandolo a raccattare il suo essere nella cattura, anche aggressiva in quanto narcisistica, di un’immagine che lo sostenga mentre scivola via. Ciò che sostiene l’immagine è, come nel sogno, ciò che dell’immagine si fa tratto e cioè segno, tradotto in una, più lettere. L’immagine non si può interiorizzare e cioè fare propria, appropriarsene, tra-dirla, se non diventa un tratto, che Lacan intende come il significante nella sua forma più elementare. Se l’immagine forma, il significante permette la trasformazione alienando il soggetto dalla presa dell’altro.

L’identificazione al tratto paterno risulta essere ciò che permette al parlante di poter costruire, svolgere il suo discorso. Il tratto che si fa segno di un oggetto non evoca forse la metonimia? Una parte per il tutto: troviamo qui l’esemplificazione della nascita del significante. Una nascita che presuppone per un verso la perdita dell’oggetto e per un altro l’assenza rispetto alla certezza della presenza dell’immagine dell’altro: il padre brilla per la sua assenza. L’incertezza del padre lo mette strutturalmente in una posizione differente da quella materna, ma poiché parliamo di struttura simbolica non potremo confondere le persone, del padre e della madre – che parlano entrambe: è un dato di realtà – con ciò che rimandano simbolicamente. Il padre introduce la parola per la sua posizione simbolica. Ed è l’incontro con questa posizione simbolica, il farla sua, che permette a Dante di ri-trovare Beatrice in nuova veste.

Si è parlato di Virgilio come di un’allegoria del sapere, per alcuni della dottrina, ma in fondo come poeta egli può essere una figura del sapere solo in quanto luogo della parola. Curioso che quando Dante si accorge che Virgilio non è più con lui usi il plurale: Ma Virgilio n'avea lasciati scemi / di sé. l’evocazione che ricevo da questo verso è che qui non si tratta della pluralità degli oggetti, esito dell’elaborazione del lutto dell’oggetto perduto da sempre, ma della pluralità soggettiva che ha potuto svolgersi nel lavoro della catena significante inaugurata dal tratto. Condizione quest’ultima perché Dante, come ciascuno di noi, possa incontrare Beatrice la cui virtù gli fa segno, segno di qualcosa a cui Dante aveva rinunciato. Beatrice si erge accusatoria nei suoi confronti:

Quando di carne a spirito era salita[12]

e bellezza e virtù cresciuta m’era,

fu’ io a lui men cara e men gradita[13]

L’antica amata accusa Dante di non essersi preso cura del seme che avrebbe potuto germogliare nel suo fertile terreno: lo accusa di aver ceduto sul suo desiderio? Questa strana affermazione per bocca di una donna che in questo momento riveste la figura materna – Così la madre al figlio par superba, / com’ella parve a me[14] – mi ha ricordato quello che Lacan dice nel seminario Il desiderio e la sua interpretazione sul piccolo Hans. Il problema per Hans non è il godimento della madre, che potrebbe inglobarlo, ma l’abisso nel quale lo trasporta il desiderio della madre, in quanto desiderio dell’Altro, nel momento in cui si accorge che la madre è mancante e cioè desiderante – al di là di lui. Hans si difende dal desiderio poiché egli intuisce che rispondervi comporta la sua scomparsa in quanto soggetto, che in quel momento non saprebbe più chi è. Nella sua difesa si supporta di un oggetto, fobico, che dà sostanza all’oggetto causa di desiderio neutralizzandolo come minaccia domestica.

Il commento di Natalino Sapegno alla scomparsa di Virgilio che lascia il posto a Beatrice, è molto interessante: “Una parte della poesia di questo passo va perduta per chi non vi vede implicita la malinconia, tante volte accennata nel poema, della condizione della scienza umana e pagana che giunge fino alla soglia della verità divina, ma è esclusa per sempre dal possederla”[15]. Occorre lasciare il sapere alle soglie della verità: è esperienza comune e banale quella di lasciarsi condizionare, nella lettura degli eventi, da ciò che si sa già.

Un analizzante, come Dante, al momento del suo autorizzarsi come analista e quindi del suo ascolto analitico, dovrebbe trovarsi portato dalla sua formazione a questo punto: il punto in cui abbandona il campo della presunzione di sapere per lasciare sgombro lo spazio della verità soggettiva, poetica nella sua costituzione, cioè non-tutta e molto di più. Si tratta di quel momento in cui può sopportare di essere tagliato dalla parola e quindi produrre quel taglio della seduta che angoscia prima di tutti l’analista che nel suo atto, incompiuto, viene meno come soggetto. Cosa resta? Forse l’oggetto a causa di desiderio.

Mi rendo conto, già da qualche pagina, che del porta-lettera di Neruda – tra il porta-lettera teorizzato da Serge Leclaire e Il postino di Neruda di Antonio Skármeta – non ho detto quasi nulla  e mi stanno scadendo le 2.500 parole. Qualcosa nelle parole di Dante per me ha fatto tratto e mi ha condotta altrove, ma una cosa devo dirla e riguarda non solo la funzione paterna di Neruda rispetto al suo giovane postino, Mario, in quanto lo introduce alla metafora – esplorata in fondo con Virgilio e Dante –, quanto l’apertura, la ricchezza, molteplicità di senso che la metafora produce. La metafora nel processo di sostituzione di un significante per un altro arriva a staccarsi quasi completamente dall’oggetto originario, restandovi legata solo per alcuni punti – un po’ come accade alla libido, di cui, nel travaso sull’altro, una parte resta attaccata sul proprio corpo. Quello che risulta nell’effetto metaforico è un altro senso e la nascita di un oggetto inedito quanto schermato dal significante. Una tra-duzione che permette l’allontanamento da quella parte di libido appiccicata sul proprio corpo come una lettera prigioniera, che domanda solo di trovare un destinatario per partire e ritornare nella continua trasformazione.

Serge Leclaire parla della lettera come di ciò che marca la zona erogena costituendola: L’iscrizione nel corpo è l’opera d’un valore sessuale proiettato da un altro sul luogo della soddisfazione; e in questo progetto di desiderio, che presuppone l’occhio o il seno stessi già marcati d’erogenità, va situata la verità della relazione tra due corpi, che appare ben sessuale per sua natura[16]. Il porta-lettera è l’altro, con il suo progetto di desiderio, che sessualizza il corpo del bambino o della bambina. Le lettere che compongo l’erogenità di un corpo dicono della tessitura di una relazione, di un amore che, come sappiamo, non potrà mantenere le sue promesse e proprio per questo potrà liberare il soggetto (un significante per un altro significante). Un altro amore forse potrà fare di una ferita un fiore: l’amore della parola che non è l’amore per le parole ma l’amore che è nella parola. In una conversazione con Gabriella Zadra si parlava della reciprocità dell’amore: lo è? non lo è? Ebbene l’unico amore che posso accettare come reciproco, che pone la questione della fiducia nell’Altro, è nella parola perché la struttura della parola scava il posto del soggetto: la simbolizzazione gli permette di venire al mondo.

Nel romanzo di Skármeta il porta-lettera è il giovane allievo, immerso nell’amore per i versi di Neruda, prima che le metafore rubate al poeta gli permettano di conquistare l’amore della sua bella. Il balbettio del giovane allievo che pian piano si articolerà nella scrittura di una poesia, lo porterà a  prendere il suo fragile posto nel mondo, a sostenere il suo desiderio. La funzione dello psicoanalista è precisamente di sostenere il desiderio, compreso il suo se non vuole bloccare la sua formazione. Oggi si assiste allo strano fenomeno chiamato “analfabetismo di ritorno”; il linguista Tullio De Mauro ce ne dà una testimonianza in Analfabeti d’Italia, nel numero 734 del 6 marzo 2008 dell’ “Internazionale”:

Cinque italiani su cento tra i 14 e i 65 anni non sanno distinguere una lettera dall’altra. Trentotto lo sanno fare, ma riescono solo a leggere con difficoltà una scritta e a decifrare qualche cifra. Trentatré superano questa condizione ma qui si fermano: un testo scritto che riguardi fatti collettivi, di rilievo anche nella vita quotidiana, è oltre la portata delle loro capacità di lettura e di scrittura, un grafico con qualche percentuale è un’icona incomprensibile.

“Analfabetismo di ritorno” non mi sembra la forma più precisa per chiamare quello che sta accadendo, si rischia di occultare una questione di fondo. Le persone sono abbastanza alfabetizzare. Quelle che non riescono a distinguere una lettera da un'altra le distingue il DSM V da qualche parte. Di quelle trentotto su cento che legge con difficoltà una scritta o una cifra non ne sappiamo granché, possiamo fare delle ipotesi ma molto azzardate. Per quelle persone che sanno leggere e scrivere ma non capiscono quello che leggono possiamo invece ipotizzare, con più frutto, che non c’è funzionamento della metafora paterna, con l’esito di non capire e di appiattire il linguaggio che diventa un codice. La psicoanalisi non a caso è un’invenzione del ‘900 e in questo secolo rischia di scomparire. Ma oggi più che mai la sua funzione è di preservare il simbolico, che è il fondamento del linguaggio: occorre stare sempre molto attenti a non leggere i segni secondo il loro valore di immagine ma nella loro relazione simbolica, come diceva Freud.


[1] S. Freud, L’interpretazione dei sogni, Opere, vol. 3, pag. 257, ed. Boringhieri.

[2] Ibid., pag. 258.

[3] Già molto tempo era passato che alla sua presenza.

[4] Senza dagli occhi aver preso conoscenza di lei, senza averla quasi vista.

[5] Non appena negli occhi, nella vista mi ferì.

[6] Del Lugo spiega in questo modo: “con la sospensione d’animo, con l’affannosa incertezza”. Respitto è da collegare al provenzale respit, respieit: “speranza, attesa”. Dante Alighieri, La Divina Commedia, canto XXX del “Purgatorio”, vol. II, vv. 34 - 43, “La Nuova Italia” Ed. Firenze.

[7] “Scemi” indica l’asportazione di una parte: Dante sarebbe stato privato di Virgilio come di una sua parte.

[8] Ibid., vv. 49 - 51.

[9] S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, “l’identificazione”, Opere, vol. IX, pag. 293, Ed. Boringhieri.

[10] Il corsivo è mio.

[11] J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, Scritti, pag. 88, Ed. Einaudi.

[12]Quando Beatrice muore.

[13] Dante Alighieri, La Divina Commedia, canto XXX del “Purgatorio”, vol. II, vv. 127-129, “La Nuova Italia” Ed. Firenze.

[14] Ibid., vv. 79-80.

[15] Ibid., pag. 333.

[16] S. Leclaire, Psicoanalizzare. Saggio sull’ordine dell’inconscio e la pratica della lettera, Casa Ed. Astrolabio, p. 51.

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